L'autorappresentazione mediatica della transidentità

Con Ilaria Vettor, Foto: Francesco Fazzi, Styling: Vito Ancona, Make-up: Sara Zuanti, Concept: Diario Performato, 2019.

Molte persone trans* scelgono di condividere il proprio percorso di affermazione di genere attraverso i social media. 

Una delle piattaforme più utilizzate è YouTube in quanto permette di creare una sorta di video-diario dove mostrare, mese per mese, i cambiamenti apportati dalla terapia ormonale sostitutiva. 

Con Ilaria Vettor, Foto: Francesco Fazzi, Styling: Vito Ancona, Make-up: Sara Zuanti, Concept: Diario Performato, 2019.

Si tratta di una forma di autorappresentazione che in molti casi ha prima di tutto un valore documentario, quello di creare una sorta di archivio delle varie fasi della propria transizione, e al contempo lo scopo di offrire, attraverso il proprio volto e la propria storia, una rappresentazione di un gruppo sociale spesso mistificato ed emarginato.

L’intenzione informativa è altrettanto importante e presente e nasce dal desiderio di condividere il proprio vissuto per sostenere chi vorrebbe intraprendere lo stesso percorso e non sa come muoversi o (soprattutto all'inizio di questo fenomeno in in Italia, negli anni 2010) ne ignora l’esistenza, seppur transgender, ma non consapevole della propria situazione

Il valore che a mio avviso è più importante è quello rappresentativo: non solo scrivere la prova della propria esistenza e offrire un esempio attraverso la propria testimonianza ma anche raccontare in prima persona la propria storia in quanto appartenente a un gruppo sociale segnato dall’esclusione e della mistificazione e dalla narrazione medico-psichiatrica.

Foto: Francesco Fazzi, Styling: Vito Ancona, Make-up: Sara Zuanti, Concept: Diario Performato, 2019.

Un insieme di persone la cui narrazione è scritta da altri e segnata da uno sguardo, a mio avviso, quando non clinico, voyeuristico .

Attraverso una moltitudine sempre più crescente di testimonianze si crea un racconto collettivo che restituisce la complessità di una condizione umana. 

L’altro dato che ritengo particolarmente eloquente in questo genere di autonarrazione è la stessa volontà di automostrazione: molta narrativa sulla transidentità promuove il discorso su «il corpo sbagliato», un corpo che non rispecchia ma anzi contraddice la propria interiorità, un corpo quindi rifiutato che deve essere nascosto. 

Nel momento in cui ci si propone di cambiare la propria immagine di sé emerge il desiderio di manifestarsi, di rendere pubblica la propria storia e il proprio vissuto compreso un corpo che prima (secondo la narrazione storicamente dominante) voleva essere cancellato. 

Foto: Francesco Fazzi, Styling: Vito Ancona, Make-up: Sara Zuanti, Concept: Diario Performato, 2019.

Questo desiderio di automostrazione implica anche il condividere la propria singola esperienza e quindi non più una narrazione omologante basata su stereotipi o dati clinici e statistici. 

Grazie ai social media l’autorappresentazione è stata resa democratica e il racconto di sé online ha assunto il valore di un segnale di presenza, la condivisione di chi siamo (o vogliamo essere per lə altrə) è diventata un modo per attestare la propria esistenza

Interessante è come in questo tipo di narrazione il corpo diventi un vettore dell’espressione di sé: l’esibizione delle proprie cicatrici, di un’archivio fotografico e/o audiovisivo del proprio corpo che cambia 

fanno di questo tipo di narrazioni delle scritture del corpo, in cui permane (seppur non intenzionalmente) l’eredità della Body Art, in cui l’artista espone il proprio corpo e la propria quotidianità, indagando i propri limiti fisici e mentali, sostituendo il gesto performativo all’oggetto artistico.